di Francesca Barra. da “L’Espresso” del 17 gennaio 2023
“Io sono un po’ matto e tu?“
Da trent’anni a Roma Dario D’ambrosi anima un esperimento di avanguardia. «Quando mi portano i figli spesso sono in stato catatonico, i genitori sono distrutti dal dolore: ma questo palcoscenico ha prodotto una luce che rientra nelle case»
Gianluca è un ragazzo schizofrenico. Anna, sua madre, non si arrende allo stigma sociale a cui è destinato. Non sa dove, ma deve pur esistere, da qualche parte, un’occasione per lui. Per sentirsi meno invisibile, per inserirsi in un contesto confortevole. Per vivere senza spavento.
Quella speranza ha un nome: Dario D’ambrosi, un temerario che ha fondato trent’anni fa il Teatro Patologico, nato per accendere una fiamma nella vita di ragazzi con gravi problemi psichici, emarginati dalla società e che invece, in quel Teatro all’avanguardia a Roma, diventano attori sfidando ogni limite immaginabile.
È da lui che arriva Gianluca anche se quell’esperimento si rivela fin dai primi tentativi un fallimento: a lezione di teatro si strappa la pelle, diventa violento creando scompiglio, frena i progressi degli altri studenti. Dario è un resistente e trova una soluzione perché per lui sarebbe troppo semplice mollare i casi più ingestibili e così propone ad Anna non di ritirare suo figlio, ma di iscriversi al corso con lui. Per convincerla riesce perfino a farle avere i permessi per assentarsi dallo studio dove lavora: gli avvocati non restano indifferenti alla richiesta di una persona così motivata. Finalmente quella che fino ad allora sembrava solo una grave malattia, assume altri contorni.
Anna e suo figlio iniziano così questo percorso insieme. Si tengono per mano come fossero avvitati in quella piccola immensa sfida e si guardano negli occhi, si riconoscono. Gianluca non ha più crisi schizofreniche, segue sua mamma come fosse un neonato che si affida alle sue cure.
Durante lo spettacolo finale gli avvocati dello studio dove lavora sono schierati in prima fila commossi e Anna confessa: «Avevo messo al mondo mio figlio, ma non lo conoscevo davvero: ora ho capito che sono sua madre». Come Paolo, che non sapeva cosa fosse il pianto, prima di esprimersi su quel palco riuscendo a interpretare Ulisse: «Il teatro mi ha curato». O come Marina che si sente «libera nella follia». Ha sofferto di disturbo bipolare, paranoia, disturbo schizoaffettivo. È stata perfino arrestata: un caso cosiddetto senza speranza. Oggi, con la compagnia teatrale, sente di non essere più sola.
Questo è il teatro patologico: un trampolino che restituisce bellezza con un tuffo nella libertà e nella comprensione.
«Quando mi portano i figli spesso sono in stato catatonico, i genitori sono distrutti dal dolore, non dormono la notte, ma questo palcoscenico ha prodotto una luce che rientra nelle case», mi dice Dario, un rivoluzionario che ha riconosciuto il loro potenziale e li ha saputi vedere davvero, in una società che li emargina e li tratta come “rifiuti umani”, dimenticandosi di loro nelle emergenze (come durante il lockdown) e nei loro piccoli grandi progressi: riconoscerli vorrebbe dire restituire loro la dignità di una vita complessa, ma meritevole di attenzione, di cure, di amore. Come le nostre. Dario ha restituito loro la dignità del diritto di esistere. Sarà per questo che oggi indossano con orgoglio e un pizzico di sarcasmo una maglietta con una scritta che fa a pezzi un pregiudizio: «Io sono un po’ matto e tu?».